L’ORCO DOCILE

L

Prima gigantesco e terrificante, adesso con un’anima dopo le recenti dichiarazioni.
È la vicenda dell’ex rugbista francese Sebastien Chabal, hanno riaperto il dibattito sulle commozioni celebrali purtroppo al centro di una disciplina tanto dura seppur  leale e di grande rispetto tra i giocatori in campo.

M

uscoli e centimetri.
Altezza 191 cm, peso oltre 110 kg.
Con un trascorso in fabbrica a correggere le deviazioni mentre l’economie erano strette.
Tornitore e fresatore come metafora di quello che sarebbe stato in campo, sfruttando lo strapotere fisico dopo aver iniziato tardi col rugby diventando generosamente, una delle icone mondiali della disciplina.
Poi il cuore e le confessioni dentro un muscolo più grande.
Ritirato nel 2014 dopo una carriera di grande successo tra i migliori club francesi oltre sessantadue presenze con la nazionale, affermandosi in campo mondiale col soprannome di “Orco” per il suo imponente aspetto duro e crudo, compreso di capelli lunghi e barba folta, un’icona al punto da essere stato contattato da Clint Eastwood per le riprese di “Invictus – L’Invincibile” inerente il racconto della Coppa del Mondo 1995 vinta dal Sudafrica, purtroppo rifiutata dal giocatore per i troppi impegni.
Una carriera di grande fama e successi, fino alla recente intervista che nuovamente, ha riaperto il tema dei traumi derivanti dai frequenti contatti fisici, molti dei quali alla testa, che finiscono per avere a distanza di anni, importanti ripercussioni delle commozioni cerebrali.
“Non sono mai andato da un neurologo, tanto la mia memoria non tornerebbe. A casa mi capita di parlare con mia moglie, di dirle di avere la sensazione di non essere stato io ad aver giocato quelle partite. Ho pochi ricordi, dell’infanzia, ma credo che si siano sedimentati dentro di me perché me li hanno raccontati di continuo. La data di nascita delle mie figlie? Non la ricordo”.
Un tema che riporta avanti un altro film, scritto e diretto da da Peter Landesman, con protagonista Will Smith intitolato “Zona d’Ombra – Concussion”, che tratta la vera storia del neuropatologo nigeriano, dottor Bennet Omalu, che scoprì l’encefalopatia traumatica cronica, una patologia degenerativa del cervello causata dai continui colpi alla testa, mentre indagava sulla morte di Mike Webster ex campione di football, e del conseguente dibattito con la NFL al centro di presunte negligenze per la salute dei giocatori di cui molti, iniziarono a mostrare segni di squilibrio.
Impossibile non citare il clamoroso caso di David Russell Duerson, morto suicida nel 2011 sparandosi al petto in modo che il suo cervello potesse essere oggetto di studio per la ricerca scientifica della stessa malattia.
Un problema ben noto dove sul British Medical Journal è stato pubblicato uno studio scientifico sull’alta incidenza di malattie neurodegenerative tra i rugbisti, includendo 412 ex giocatori scozzesi abbinati per età, sesso e stato socioeconomico a ulteriori 1236 della popolazione, entrambi i gruppi monitorati per 32 anni.
Uno scenario che da un lato, ha evidenziato come gli ex rugbisti vivono mediamente più a lungo, dall’altro invece, la possibilità in percentuale più del doppio, di soffrire una malattia neurodegenerativa.
Attualmente a livello professionistico il protocollo è chiaro, perché qualora ci fosse anche solo il sospetto che un giocatore possa avere avuto una commozione cerebrale scatta l’HIA (Head Ingiury Assestment), che prevede un controllo congiunto dei medici presenti per capire la possibilità o meno di continuare.
Il caschetto potrebbe essere un dispositivo di protezione, ma oltre a colpire pesantemente altre parti del corpo avversario prive di protezione durante gli attimi di gioco, non può limitare il danno perché il cervello continuerebbe a muoversi nel suo liquido al momento dell’impatto, più si muoverà e maggiormente sarà il trauma anche causato da un errato placcaggio, senza dimenticare come i problemi maggiori sono causati non dalla singola commozione ma dalle ripetute che generano danni peggiori.
La convinzione è che siamo moltissimi gli atleti, magari provenienti anche da ulteriori discipline a soffrire di questa patologia dopo il ritiro dall’attività agonistica
Il problema è serio, con l’augurio che proprio l’intervista di Chabal, abbia nuovamente acceso i riflettori proprio perché rilasciata da un giocatore del suo calibro, affinché possa generarsi una convergenza di misure per (quantomeno) limitare il problema.

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Andrea La Rosa

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