1989-1990: in dodici mesi cambia tutto per la pallavolo italiana. Da squadra di terza fascia diventiamo prima campioni d’Europa e poi del Mondo. Mentre il nostro diventa il campionato più ricco di campioni e i nostri azzurri si ritrovano ad essere celebrati come rockstar.

È l’estate del 1989 a cambiare tutto, dentro e fuori la nazionale. Sugli azzurri, reduci dalle deludentissime Olimpiadi di Seoul ’88, piomba l’uragano Julio Velasco, con le sue durezze e le sue certezze. In nazionale non vanno necessariamente i dodici più forti o più vincenti, ma chi ha “fame” di sudare tutta l’estate per la maglia azzurra, indipendentemente dal curriculum. Ci sono così esclusioni eccellenti (Bertoli e Vullo su tutti) e convocazioni sorprendenti (i palleggiatori sono Tofoli e De Giorgi, provenienti da squadre di centro classifica), ma ci sono, soprattutto, regole ferree finora sconosciute a quel team, finalizzate a combattere quella “teoria dell’alibi” tanto invisa al nuovo ct. Vietato quindi andare in trasferta con cibo italiano al seguito, si mangia quel che si trova sul posto; si viaggia in economy, come i comuni mortali, e pazienza se i più alti stanno stretti; si impara a lavarsi da soli le divise sudate, senza contare sul servizio lavanderia dell’hotel. E poi allenamenti estenuanti ma innovativi, costruiti su situazioni di gioco anziché sulla ripetizione della tecnica individuale vecchio stile. È un’estate durissima per i giocatori, molti dei quali, per loro stessa ammissione, non capiscono fino in fondo il senso di quelle durezze, ma si adeguano, schiacciati dall’enorme carisma del loro coach argentino. Intanto, la pallavolo sta cambiando anche fuori dal parquet: improvvisamente i tre più potenti e ricchi imprenditori italiani del momento (Berlusconi, Benetton e Ferruzzi) decidono di investire decine di miliardi di lire nella pallavolo, acquistando i club di Milano, Treviso e Ravenna ed iniziando a comporre degli autentici “dream team” a suon di assegni a nove zeri. Uno sport che fino a quel momento era stato per pochi intimi (e gli stipendi in proporzione), si riscopre ricchissimo, con i migliori stranieri del mondo accanto ai nostri azzurri, alcuni dei quali arrivano a guadagnare un miliardo a stagione, cifra impensabile per chiunque solo dodici mesi prima. Il rovescio della medaglia è che molti club storici, primo tra tutti Modena, vanno in crisi, non potendo sostenere aste su quelle cifre: Bertoli, Lucchetta e Zorzi andranno a Milano, Vullo, Gardini e Masciarelli a Ravenna, Cantagalli, Tofoli e Bernardi a Treviso. Un terremoto, insomma.
Ma quell’estate dell’89 il terremoto più forte arriva dal campo, dove una sola preparazione firmata Velasco è sufficiente per mandare in soffitta l’Italietta perdente a cui eravamo abituati nel volley, qualificata (quando si qualificava) per il rotto della cuffia, sempre esclusa dalle posizioni di vertice e trattata con sufficienza dalle potenze del volley mondiale. Alle qualificazioni per l’Europeo gli azzurri spazzano via Finlandia, Norvegia e Jugoslavia, poi nella fase finale, in Svezia, esordiamo col botto battendo la Bulgaria. Arriviamo in semifinale perdendo un solo match (ininfluente) contro la Francia e lì dominiamo l’Olanda, mentre la Svezia, guidata da Bengt Gustafsson “l’angelo biondo”, ci fa il favore di togliere di mezzo l’URSS (l’ultimo della storia, visto che a breve cadrà il Muro). In finale, i padroni di casa vincono il primo set, ma il ritorno dell’Italia è veemente, con un contributo importante anche delle seconde linee, primo tra tutti Anastasi, che dieci anni dopo diventerà ct di quella stessa squadra. C’è battaglia solo nel terzo set, ma perso quello la Svezia molla e il quarto è un comodo scivolo per il primo titolo europeo dell’Italia del volley, un trionfo che segna l’alba di un’era. Incredibile a dirsi, da Stoccolma in poi l’Italietta non esiste più: in dodici mesi gli azzurri conquisteranno la neonata World League, i Goodwill Games e un prestigioso secondo posto alla World Cup in Giappone, battuti solo da Cuba. Il nostro orizzonte, da cenerentola d’Europa, ora guarda al top mondiale: nel 1990 ci sono i Mondiali in Brasile, dove i padroni di casa e Cuba sono i favoriti più attesi, e l’Italia della pallavolo sembra essere chiamata a riscattare le amarezze di quella del calcio, uscita in lacrime dalle “notti magiche”. I prodromi al Mondiale non sono dei migliori: perdiamo diverse amichevoli contro i cubani, addirittura contro una formazione All Star con i migliori stranieri del nostro campionato. I nostri giocatori sono ormai come rockstar, attesi ad ogni hotel e palazzetto da orde di adolescenti che impazziscono per loro. Niente di male, ma con il solito pessimismo italiano
qualcuno comincia a dire che ci si sta montando la testa e che in Brasile non si andrà lontano. Nel girone incontriamo subito Cuba, che ci asfalta tre a zero; Velasco mette in panca due colonne come Zorzi (anzi “Sorsi”, come lo chiama lui) e Tofoli, l’avventura sembra sul punto di naufragare. E invece l’Italia si ritrova, supera nettamente la Cecoslovacchia negli ottavi e l’Argentina nei quarti, per poi ritrovarsi contro i padroni di casa in semifinale. Ne nasce uno scontro epico, con gli azzurri da soli in un Maracanazinho ribollente di giallo e verde, circondati da 25 mila tifosi avversari indiavolati e contro una squadra fenomenale, allenata da quel Bebeto che nel 1996 succederà proprio a Velasco sulla panchina italiana, guidandoci al terzo Mondiale consecutivo. Ma lì la storia era ancora di là dall’essere scritta. Il Brasile parte fortissimo e noi, storditi da tanto delirio, non ne mettiamo giù una: dopo un quarto d’ora siamo sotto 8-0. Perso il primo set, però, ci risolleviamo, iniziando a trovare le nostre certezze, dalla difesa ermetica a Zorzi che in attacco passa con sempre maggiore continuità nel disordinato muro brasiliano. Vinciamo secondo e terzo, nel quarto Velasco ha il coraggio di tirare fuori praticamente tutti i titolari per farli rifiatare, correndo il rischio di puntare tutto sul tie break. Ma la scommessa dell’argentino è vincente: in un quinto set bollente, l’Italia è più fresca e sull’ultimo punto capitan Lucchetta inchioda a terra un perfetto primo tempo, siglando la nostra vittoria 3 a 2 e spegnendo definitivamente gli ardori della torçida. La scelta di Tofoli di dare l’ultima palla a Lucchetta (implacabile a muro, un po’ meno in schiacciata) è sorprendente, tant’è che la leggenda vuole che nel timeout precedente Velasco avesse detto al suo palleggiatore di dare l’eventuale ultima palla in banda, a Bernardi. Un piccolo, allegro mistero della Generazione di Fenomeni, che negli anni a venire darà vita a più d’un siparietto tra i diretti interessati.
Il 28 ottobre, però, c’è ancora una finale da vincere contro la nostra bestia nera, Cuba, che può oltretutto contare sul tifo di tutti i brasiliani sugli spalti, ancora col dente avvelenato per l’eliminazione di Carlao & Co. La colonna della squadra caraibica è Joel Despaigne, “El diablo”, schiacciatore opposto dalla superba prestanza fisica, in grado di attaccare un elevatissimo numero di palloni, colpendoli ad altezze siderali. Il primo set è un autentico show di Despaigne, con l’Italia che non riesce a contenerlo né a muro né in ricezione, al punto da costringere Velasco a togliere Cantagalli per Bracci. Dal secondo set in poi, ancora una volta, gli azzurri iniziano a risalire la corrente, palla su palla, con immensa fatica e tenacia, con una forza mentale razionalmente inspiegabile per una squadra giovane e per nulla abituata a quei livelli. Eppure, lentamente ma inesorabilmente, l’Italia mette le mani sulla partita: Zorzi ingaggia un duello a distanza di rara bellezza col Diablo, finendo col mettere a terra 50 palloni, Gardini domina in fase di cambio palla, Bernardi in quella di contrattacco, Tofoli non perde mai freschezza atletica e lucidità mentale, a dispetto del caldo torrido e dei cinque set contro il Brasile. Avanti di due set a uno e 10-5 nel quarto, l’Italia ha l’unico, umanissimo tentennamento; quello che Gianni Clerici, nel tennis, chiamerebbe “braccino”, cioè la paura di vincere. Vantes e Despaigne guidano la riscossa di Cuba, che piazza una striscia di sei punti di fila che riapre il set e il match. Ora è un’autentica battaglia, un infinito braccio di ferro di cambi palla che giunge fino al 14 pari, dopo che Cantagalli, murando Despaigne, ha scongiurato il quinto set. Lucchetta ci porta sul 15-14, e da lì nasce un’altra piccola gara di resistenza, fisica e mentale, con l’Italia che si vede annullare ben otto match ball prima di chiudere, stavolta sì, con l’ultimo contrattacco vincente di Lorenzo Bernardi. Un attimo e Gardini è già sul seggiolone dell’arbitro col tricolore in mano: siamo campioni del mondo. La prima (e forse anche la più grande) impresa della Generazione di Fenomeni. Andrea Lucchetta, capitano e premiato come MVP del torneo, avrà un bel dire, anni dopo, sul fatto che l’ebbrezza della vittoria duri solo qualche secondo, al contrario dell’amarezza delle sconfitte. Ma quei secondi, per pochi che possano essere stati, di quasi trent’anni fa, hanno scritto un’epoca.
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Molto bella e interessante l’idea di ripercorrere la lunga e irripetibile stagione della generazione di fenomeni del volley italiano. Così descritta si ha la precisa idea di quanto sia stata straordinaria e innovativa. For ever.