C’è un equivoco tattico di fondo, nel football offensivo degli ultimi dieci anni: il quarterback scramble. Per i meno avvezzi alle pieghe del gioco, lo “strapazzamento” del quarterback è quella situazione in cui il suddetto, per scelta predeterminata o per necessità contingente dovuta alla pressione della linea avversaria, esce in campo libero, fuori dallo spazio immaginario compreso tra i due offensive tackle, quindi fuori dalla protezione della sua tasca. La sua corsa è spesso laterale e, ancor più spesso, avviene sul lato forte, quello cioè del braccio di lancio del qb. Una volta liberatosi dall’abbraccio mortale dei pass rusher avversari, il qb ha qualche attimo per studiare la situazione: se vede libero uno dei suoi ricevitori gli lancia il pallone (se non ha superato la linea di scrimmage) o, in caso contrario, lo porta in prima persona, correndo in avanti e verso l’esterno, per guadagnare la linea laterale prima di venire frantumato (o fratturato, fate voi) dai placcaggi dei difensori avversari.
Fin qui, il libro della teoria. La pratica, però, è diversa. Nato e cresciuto per decenni come “uscita d’emergenza” del qb di fronte al collasso della linea offensiva, da Randall Cunningham in poi (quindi dalla metà degli anni ’80) lo scramble si è via via evoluto, passando per il grandioso talento in campo aperto di quarterback come Michael Vick (forse il migliore di tutti, finora), Steve Young, Kordell Stewart, fino ad approdare alla situazione odierna, in cui avere un qb “normale”, che se ne stia buono buono dentro la tasca a lanciare, è percepita quasi come una diminutio delle potenzialità offensive della squadra. Non è certo un caso che i qb più acclamati della giovane generazione abbiano tutti una fortissima tendenza allo scramble: i nomi di Russell Wilson, Cam Newton, Andrew Luck, Colin Kaepernick e Robert Griffin III bastano e avanzano per darci conferma di quanto lo scramble sia ormai uno schema per nulla estemporaneo, bensì studiato a tavolino, provato in allenamento e chiamato ripetutamente in partita. I tifosi sono contenti perché è uno schema che spezza la sostanziale dicotomia del football (passaggio del qb o corsa del running back), i qb di cui sopra sono contenti perché gli piace farlo e possono mettere in mostra le loro qualità globali, i coach (alcuni) sono contenti perché vedono il loro attacco più imprevedibile.
Tutto bene, quindi? Niente affatto, perché è qui che nasce l’equivoco. Tra tutti i campioni, statistiche alla mano, che ho elencato in precedenza, solo due hanno vinto il titolo, uno a testa, Young e Wilson, rispettivamente con San Francisco e Seattle, due squadroni pieni zeppi di campioni nell’anno delle rispettive vittorie. Newton e Luck sono giovani e magari ci riusciranno in futuro, ma Cunnigham e Vick hanno avuto carriere lunghissime, eppure l’anello è sempre sfuggito loro. Stewart è forse il giocatore più universale della storia della NFL, qb/running back/ricevitore, ma niente Vince Lombardi Trophy; sorvoliamo per carità di patria su RGIII e andiamo a vedere Kaepernick, piombato nella Baia come un alieno immarcabile e ora malinconicamente finito dopo sole due stagioni in panchina, fischiato dai tifosi e messo all’angolo dai suoi stessi compagni, stufi delle sue illeggibili bizarrie tattiche. Solo coincidenze? No, direi piuttosto che da questi numeri è lecito far nascere, quantomeno, il dubbio che lo scramble sistematico sia sì foriero di imprevedibilità, ma soprattutto in casa propria!
Il primo nodo dell’equivoco, a mio parere, non sta nel talento del quarterback, ma nelle caratteristiche fisiche dei cinque uomini deputati a proteggerlo, gli offensive linemen: un centro, due guardie e due tackle, cinque colossi dall’altezza media (secondo le ultime statistiche NFL) di 193 cm per un peso medio di 140 chili. Un quarterback pesa tra i 40 e i 50 chili meno dei suoi “angeli custodi”, per pari altezza, ed è quindi molto più veloce di loro, oltre ad essere molto più predisposto e allenato di loro nella corsa. Lo scramble crea quindi una spaccatura fisica, prima ancora che territoriale, tra due elementi che dovrebbero invece lavorare in simbiosi, il qb e la sua linea, con il primo che se ne va a spasso per il campo cercando la “finestra” giusta in cui infilarsi, o infilare il pallone, e la seconda che si vede costretta a corrergli dietro senza averne velocità, agilità e tecnica per bloccaggi in movimento. Il risultato è che, a fronte di alcune azioni spettacolari da showtime, si moltiplicano i sack, gli infortuni dei linesmen e le penalità da prese irregolari, come holding, face mask o uso illegale delle mani, tipiche di chi è chiamato a muoversi in una situazione non convenzionale.
La soluzione? Difficile a dirsi, ancora più difficile a farsi. Per avere benefici in termini di velocità, bisognerebbe alleggerire ogni uomo di linea di almeno 20 chili, ma questo comporterebbe un crollo di efficienza nei giochi di corsa, in cui ognuno dei cinque è chiamato ad aprire i varchi per il proprio running back spostando l’avversario. E se hai di fronte un defensive tackle da 140-150 chili, non puoi permetterti di cedergli neppure un etto, figuriamoci 25 chili. Alcuni coach provano a inserire dei tight end extra, due o tre, per avere più uomini preparati ai bloccaggi in movimento, ma è un palliativo, non certo una soluzione, perché i cinque uomini di linea restano, e sono ineleggibili per regolamento a ricevere il pallone, quindi questo schieramento va sostanzialmente a ridurre le opzioni a disposizione del qb per ricevere il passaggio, costringendolo quasi sempre a correre, con tutti i rischi annessi e connessi (infortuni, fumble, fatica extra e perdita di lucidità). L’unica vera soluzione sarebbe quella di avere una linea talmente forte da cantare e portare la croce al tempo stesso, ma qui sconfiniamo nella fantascienza; è fin troppo ovvio che con Webster, Stepnoski, Tuinei, Ringo e Zimmerman, i più grandi offensive linesmen di sempre, qualunque quarterback potrebbe correre duemila yard a stagione (forse anche con le infradito ai piedi).
Ed eccoci al secondo nodo dell’equivoco, l’altro elemento-chiave di questo schema, il quarterback. Lo scramble gli dà più tempo per trovare i suoi ricevitori e gli consente di avere una visuale quasi sgombra del campo, ma gli richiede anche di tenere sotto controllo più elementi e più distanti tra loro. Quando un qb agisce nella tasca, affida quasi completamente la propria incolumità ai suoi linesmen, “scavalcando” con lo sguardo la mischia furibonda che ha davanti per trovare il ricevitore da servire; è sotto pressione, una pressione ravvicinata e soffocante, ma ha paradossalmente poche cose di cui preoccuparsi. I ricevitori, i difensori profondi e al massimo il pass rusher avversario più pericoloso; se uno dei suoi linesmen crolla, lui non ha vie di fuga e deve “mangiarsi” il pallone prima del quasi inevitabile sack. Un qb lanciato in scramble, invece, deve tenere d’occhio ricevitori e difensori profondi davanti a lui, più i difensori di linea provenienti dal suo lato sinistro (se il qb corre verso destra), i linebacker se decidono di mollare le marcature e stringere su di lui e, infine, la linea di scrimmage, oltrepassata la quale gli è proibito passare il pallone. Deve muoversi ma non troppo velocemente, e soprattutto non fare finte a ritroso, che potrebbero portarlo a scontrarsi con i suoi stessi linesmen, più lenti nella corsa. Non è raro, infatti, che un qb in fase di scramble si scontri con un suo linesman in recupero, finendo per “autoplaccarsi” o, peggio ancora, per causare un fumble.
Tirando le somme, mi pare che i difetti superino i pregi riguardo l’uso programmato e ripetuto dello scramble, bellissimo da vedere in tv e dagli spalti ma improduttivo e pericoloso nella gestione complessiva della gara. E il fatto che i migliori passatori del campionato (Brady, i due Manning e Rodgers) limitino al massimo le loro escursioni in campo aperto, concentrandosi al massimo nel loro già difficilissimo ruolo, non può essere motivato solo con la loro appartenenza a una generazione precedente di giocatori. Di sicuro lo scramble e i suoi migliori interpreti fanno vendere più biglietti, ma da qui a definirlo come il simbolo del football offensivo 3.0 ne passa, e parecchio.