Chi di voi ha la bontà di seguire anche la pagina Facebook di questo blog avrà visto, ieri, l’articolo del Corriere della Sera a firma di Matteo Persivale che ho condiviso a beneficio dei miei lettori.
L’articolo prendeva spunto dalla difficile situazione in cui versa una delle leggende del football NFL, Brett Favre, situazione da lui stesso ammessa in un’intervista apparsa sui media statunitensi lo scorso 25 ottobre, dopo che lo stesso Favre aveva appena rifiutato la chiamata dei St. Louis Rams come qb “ad interim” in sostituzione dell’infortunato Sam Bradford.
Al di là della retorica di cui è farcito l’articolo di Persivale (“Adesso, per la prima volta nella sua vita, il giocatore più coraggioso della storia del football americano, ha paura”… come si quantifica il coraggio?), su Favre si può dire con certezza che abbia tirato un po’ troppo la corda con il football, giocando per 20 stagioni e fino a 41 anni d’età… troppo, per un gioco così violento. E’ chiaro che il proseguimento dell’attività ai massimi livelli, anno dopo anno, richiede un prezzo sempre maggiore al fisico degli atleti, fisico che, alcune volte, presenta subito il conto. La vicenda di Favre mi ricorda molto quella di Muhammad Alì, che combatté per ragioni economiche fino al 1981, a 39 anni, fattore che certamente accelerò l’avvento del morbo di Parkinson nel leggendario pugile. Tornando al football, il cuore del problema è nella seconda parte dell’articolo, quello relativo ai traumi cranici che colpiscono i giocatori con spaventosa frequenza ormai da anni, una vicenda che esula dal singolo caso di Favre e che ha causato una vera e propria strage di ex giocatori (18 mila casi accertati!).
Argomento tabù fino a pochi anni fa, in tempi recenti la questione è esplosa in tutta la sua gravità, al punto da costringere la NFL ad emettere il mega risarcimento citato anche da Persivale, ma al di là dei soldi sborsati si è fatto davvero poco per chi è in campo oggi. L’unico vero cambiamento è stato quello di applicare un rigido protocollo medico ai casi anche solo sospetti di trauma cranico, per cui l’atleta viene fermato immediatamente (anche contro il suo stesso parere) e non può rientrare in squadra prima di aver superato test specifici, ma è evidente come questo sia un intervento “ex post”, cioè successivo all’infortunio del giocatore, tant’è che solo nell’ultimo turno sono stati 4 i giocatori usciti per trauma cranico. Per un serio intervento “ex ante”, qualora ve ne fosse la volontà (cosa di cui dubito), bisognerebbe modificare le attrezzature e i regolamenti, iniziando col togliere il casco e l’armatura, e consentendo solo i placcaggi dalla linea delle spalle in giù, come nel rugby.
L’idea di eliminare il casco può sembrare paradossale, ma non lo è se si considera la mutazione d’uso che questo oggetto, nato come protezione, ha subito negli anni fino a divenire, oggi, una vera e propria arma. Non a caso, uno degli insegnamenti principali degli allenatori di football ai difensori dice “stampagli il casco sui numeri”, che si traduce in testate al centro del petto o della schiena; a quel punto, basta un piccolo movimento del portatore di palla per fargli arrivare il colpo un po’ più in alto, sulla mascella o sulla nuca, con effetti talvolta devastanti. A testa nuda, i giocatori non potrebbero più lanciarsi a testa in avanti come dei missili umani, e non solo perché a quel punto il regolamento glielo impedirebbe, ma per semplice spirito di conservazione. Via le armature dal tronco, concedendo solo le minime imbottiture del rugby; proibiti i placcaggi alti, proibiti i cosiddetti “spear tackle”, i placcaggi con ribaltamento dell’avversario, pena l’espulsione immediata. Ci sarebbero sempre infortuni, magari qualcuno anche serio (come accade, del resto, anche nel rugby), ma sicuramente non con la tragica frequenza odierna.
Con una off season più lunga, per concedere più tempo ai giocatori per imparare le nuove tecniche, tra un campionato e l’altro, è un cambiamento che si potrebbe fare, se si volesse. Certo, segnerebbe una svolta epocale, tecnica e d’immagine, nella storia di questo sport, la “post helmet era”, ma penso proprio che per la vita stessa di tutti i suoi protagonisti, campioni e non, valga la pena farla. Tutti i tifosi vogliono continuare a vedere lo spettacolo del football, i suoi straordinari atleti, i migliori del mondo, senza più dover contare quanti ne escono in barella o quanti di loro non arrivano a cinquant’anni. E a chi dice che il football senza caschi e corazze non sarebbe più lo stesso, rispondo dandogli ragione: sarebbe migliore.