Quando si racconta la carriera di uno sportivo ci si trova di fronte a due tipi di storie: quelle in cui i numeri sono talmente straripanti da dire praticamente tutto del protagonista e quelle in cui invece statistiche apparentemente “normali” nascondono la vera importanza dell’atleta in questione. Abbiamo scelto di raccontare la storia di Martina Navratilova in onore del torneo di Wimbledon, in corso in questi giorni, e scorrendo la pellicola della sua vita abbiamo scoperto una terza via, quella in cui i numeri impressionanti sono ugualmente ben lungi dal dire tutto del suo modo di intendere il tennis e, ancor meno, della sua vicenda umana. A vederla da vicino, la vita della Navratilova ne condensa al suo interno molte altre, per le vittorie, certo, ma non meno per le coraggiose scelte di vita, dalla fuga dalla Cecoslovacchia alla dichiarazione della propria omosessualità fino alle battaglie per i diritti (economici e non solo) delle donne nel tennis.
Martina Navratilova, nata Subertova il 18 ottobre 1956 a Praga, vede i genitori divorziare quando ha solo tre anni, ma quello che avrebbe potuto essere un trauma si trasforma invece nella sua fortuna. Il secondo marito di sua madre, Miroslav Navratil, è infatti un buon giocatore e un grande appassionato di tennis; sarà il primo coach di Martina, che adotterà il suo cognome in versione femminile. Fin da giovanissima sono evidenti in lei le stimmate della predestinata: mancina, dotata di tocco sopraffino e di una potenza muscolare ancora rara negli anni Settanta, la Navratilova degli esordi ha i suoi punti deboli in un fisico ancora da asciugare e in una fragilità psicologica che qualche volta finisce per imbrigliare le sue stesse doti tecniche.
Nel 1972, a soli 15 anni, è già campionessa nazionale e l’anno seguente si affaccia per la prima volta negli USA ed ai tornei dello Slam; nel ’74 vince il doppio misto al Roland Garros con Molina e, soprattutto, sulla terra verde di Orlando, in Florida, si aggiudica il suo primo torneo professionistico di singolare. Che la prima delle sue 167 vittorie in singolo (record assoluto di tutti i tempi, anche considerando il settore maschile) sia avvenuta negli Stati Uniti può essere considerata, più che una coincidenza, un segno del destino. Di quel Paese distante anni luce dal suo, infatti, Martina s’innamora subito, trascorrendovi periodi di allenamento sempre più lunghi, dapprima ospite di una coppia di amici e poi della stella del basket Nancy Lieberman, con cui imposta un programma di allenamento fisico fino a quel momento completamente sconosciuto nel mondo del tennis, programma che farà della Navratilova un’atleta di livello pari alla tennista.
I miglioramenti non tardano ad arrivare: nel 1975 vince quattro tornei in singolare e il doppio al Roland Garros, in coppia con Chris Evert, numero uno del mondo, giungendo inoltre in finale sia all’Australian Open (battuta dalla Goolagong) che a Parigi (battuta proprio dalla Evert). È ancora l’affascinante Evert a fermarla in semifinale agli US Open, ma al termine di quel match, ormai maggiorenne, Martina si reca all’Ufficio Immigrazione di New York, comunicando la sua decisione di defezionare dalla Cecoslovacchia e di richiedere la cittadinanza statunitense. È uno strappo fortissimo per una ragazza così giovane, che sceglie scientemente di tagliare i ponti con la propria famiglia e il proprio mondo in nome del tennis e della sua libertà. Il regime comunista che governa la Cecoslovacchia, ulteriormente irrigiditosi dopo la Primavera di Praga del ’68, la cancella dalla propria storia: perfino le sue foto e i suoi trofei vengono rimossi dai muri del tennis club dove Martina aveva colto i primi successi. Il suo è un destino purtroppo comune a quello di tutti gli altri uomini e donne, celebri e non, che decidono di passare da una parte all’altra della Cortina di Ferro con uno strappo netto, senza cercare pazienti compromessi (come invece farà, sempre nel tennis, Ivan Lendl).
Grande Martina, grande tennis, una storia importante.