Il primo Monday Night (“il posticipo”, per i calciofili) della nuova NFL mi ha regalato la bella sorpresa di rivedere su un campo da football la no-huddle offense, cioè l’attacco effettuato senza che tra un’azione e l’altra il quarterback riunisca i propri compagni in cerchio per comunicare loro il prossimo schema da mettere in pratica (“huddle”, appunto). Solo negli anni Novanta iniziarono a vedersi squadre capaci di applicare sistematicamente questo tipo di attacco per tutta la partita: i Bengals di Boomer Esiason e, soprattutto, i Buffalo Bills, che Marv Levy (nella foto) condusse al record di quattro partecipazioni consecutive al Superbowl, nessuna condita dal successo finale, purtroppo. In tempi più recenti c’è poi Peyton Manning, che dall’alto della sua classe straordinaria tiene alta la bandiera della no-huddle offense prima a Indianapolis e oggi a Denver.
Ora è il momento dei Philadelphia Eagles e del loro nuovo head coach, Chip Kelly, al primo anno nella NFL dopo i molti successi a livello universitario. Veder giocare la no-huddle offense mi ha fatto pensare immediatamente al calcio di Zdenek Zeman: stessa frenesia, stessa arrembante fisicità. Un’azione ogni 15 secondi (questa è stata la media di Philadelphia nei primi due quarti) è un ritmo pazzesco per il football, considerando che gli 11 uomini in campo devono riposizionarsi dietro la linea di scrimmage, leggere i segnali da bordo campo, studiare il posizionamento della difesa avversaria e ascoltare gli audibles, i comandi vocali, impartiti dal qb. Insomma, ci vuole affiatamento, grande disciplina, colpo d’occhio e una notevole preparazione atletica per fare tutto questo in 15 secondi per una decina di azioni consecutive, e tutti questi ingredienti non sempre bastano ad evitare pasticci imbarazzanti. Quando il motore gira a pieno regime, però, per gli avversari sono dolori.
Il vantaggio principale della no-huddle offense è l’enorme pressione, fisica e tattica, che mette sulla difesa avversaria: fisica perché con la stanchezza i placcaggi si fanno più morbidi e gli errori di copertura più frequenti, tattica perché i difensori, specialmente secondarie e linebacker, sono sempre costretti a improvvisare, a giocare a intuito. I lati negativi non mancano, naturalmente: è un tipo di gioco complesso, difficile da mettere in pratica in condizioni metereologiche avverse ed è, soprattutto, faticoso. Se non si mette al sicuro la partita nei primi due quarti, infatti, si corre il rischio concreto di arrivare sulle ginocchia allo sprint finale (vedi infatti la vittoria di Philadelphia, da 32-7 a 32-27) ed è facile, infine, che la rapidità d’esecuzione richiesta si trasformi in frenesia, con il risultato di soffocare il gioco. C’è poi lo spettacolo nello spettacolo, quello dei metodi con cui vengono comunicati i segnali da bordo campo. Nella partita degli Eagles, al termine di ogni azione succedeva di tutto: si alzavano palette colorate, pannelli numerati e contemporaneamente quattro assistant coach iniziavano a gesticolare furiosamente, come degli allenatori di baseball fatti di anfetamine.
La vittoria contro Washington nel Monday Night non credo possa elevare gli Eagles nella ristretta cerchia delle favorite per il titolo (cerchia in cui tengo Denver, San Francisco, New England e Seattle), ma di certo ha mostrato che qualcosa di nuovo sta irrompendo nella NFL.