La conquista di Londra: analisi di due battaglie da ricordare

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Berrettini esce battuto (ma a testa alta) dalla finale di Wimbledon, per mano di Novak Djokovic, numero 1 a caccia del Grand Slam e (ancora) inarrivabile per tutti. Poche ore dopo, e a pochi chilometri dall’All England Lawn and Tennis Club, la nazionale completa il suo splendido Europeo andando a vincere ai rigori sui padroni di casa, spazzati via nel gioco e nel carattere molto più di quanto dica il risultato.

Da Berrettini a Mancini e Bonucci: Londra si tinge d’azzurro

Una domenica di sport così, per l’Italia, non poteva che arrivare l’11 di luglio, il giorno in cui vincemmo i Mondiali di calcio del 1982 in Spagna, battendo la Germania Ovest 3 a 1. Una maratona televisiva ad altissimo tasso emotivo, quella di ieri, in cui una vittoria sulla carta impossibile (quella di Berrettini) è sembrata divenire possibile dopo il primo set, ed invece quella più fattibile è sembrata naufragare dopo due soli minuti di gioco. Il Tempo, però, che com’è noto ha tra i suoi pregi quello di essere galantuomo, ha lentamente ristabilito il normale corso delle cose, facendo rimontare Djokovic fino ad un meritato successo in quattro set e concedendo ai nostri Azzurri di pareggiare per poi finire in gloria ai calci di rigore. Andiamo con ordine, iniziando dalla finale di Wimbledon, una sconfitta che deve dire molto a Berrettini, così come quella subita sempre per mano di Djokovic e sempre in quattro set ai quarti dell’ultimo Roland Garros. A Parigi il nostro era stato più in partita di ieri, aveva messo più paura di ieri al numero 1, ed era stato davvero ad un passo dal trascinarlo al quinto set, cosa che ieri non si è neppure profilata all’orizzonte. I prati (o quel che ne resta, dopo 15 giorni di gioco) esaltano il servizio di Berrettini, portandogli una dote di punti non indifferente. Ma contro un ribattitore di livello assoluto come Djokovic, pari solo ad Agassi nella storia moderna, la superficie veloce si è paradossalmente rivelata un problema per Matteo che, se non faceva punto direttamente con la battuta, una volta entrato nello scambio sopra i due colpi era praticamente spacciato, avendo molto meno tempo, rispetto alla terra battuta, per aggirare la palla e colpirla con il fenomenale dritto. A Parigi, Djokovic aveva fatto una fatica tremenda ad uscire dal martellamento servizio/dritto, ed era anche stato aiutato dalla pioggia, mentre a Londra ha avuto molte più possibilità di insistere sul rovescio dell’italiano, infinitamente meno pericoloso del dritto. L’impressione, quindi, è che il tennis di Berrettini sia più “facile” sull’erba ma, al top, sia più attuabile sulla terra, superficie che certo gli toglie un po’ di punti diretti col servizio, ma che in cambio gli concede più spesso di condurre lo scambio con il dritto. Di positivo, c’è la conferma di come Berrettini e il suo tennis siano universali, cioè in grado di fare risultato praticamente su ogni superficie: tolto Djokovic, quanti top-20 possono vantare questo pregio? Con Federer ormai sul piede del ritiro e Nadal costretto a centellinare gli impegni per tenere insieme un fisico logorato da mille battaglie, resta il solo Djokovic a rappresentare i leggendari Fab Three, inarrivabili per tutti, ma se dovesse centrare il Grand Slam siamo certi che il suo 2022 sarebbe in calando, per ragioni fisiche e motivazionali. Ora, l’obiettivo di Berrettini è quello di essere il migliore degli “altri”; intere generazioni di tennisti si sono “bruciate” nell’attesa, ma ora sembra davvero avvicinarsi l’ora del ricambio al vertice. E Matteo sa di dover farsi trovare pronto.

Passando dal prato spelacchiato di Wimbledon al tappeto verde di Wembley, non si può non partire dal gol di Shaw dopo 2′. Un “buco” difensivo a freddo, figlio anche della mossa tattica a sorpresa di Southgate (la difesa a 5) a cui i nostri dovevano ancora adattarsi. Ha portato agli inglesi il gol del vantaggio, è vero, ma quella mossa, e quel gol, si sono rivelati in realtà un boomerang da cui l’Inghilterra non è più riuscita a sfuggire: una formazione difensiva attuata da una squadra che, per il solito, assurdo senso di superiorità, ha pensato che bastasse quel golletto, con ancora 88 minuti e recuperi vari da giocare, per portarsi via la coppa. Idea sballata, piano di gioco sballato, che ha prodotto il celebre “autobus sulla linea di porta” di mourihnana memoria, con i bianchi tutti i raccolti nei loro ultimi 35 metri, intenti solo a non lasciare gli spazi, con il solo Kane, davanti, a battagliare (finché gli ha retto il fiato) per far salire i suoi e provare a pungerci. I nostri hanno fatto tanto possesso palla, per lunghi tratti sterile, ma va detto che la partita, perché sia tale, bisogna farla in due, mentre se uno dei due contendenti rinuncia ad attaccare diventa molto difficile, per l’altro, trovare lo spazio necessario a farlo. In questa situazione tatticamente “congelata”, la svolta poteva venire solo da un’invenzione personale (e Chiesa c’era andato vicino) o da un calcio piazzato, che infatti ci ha regalato il pareggio di Bonucci. E lì, in quella mezz’ora abbondante giocata sull’1 a 1 tra tempi regolamentari e supplementari, l’Italia ha legittimato la sua netta superiorità, a fronte di un’Inghilterra incapace di cambiare atteggiamento, di diventare propositiva, di provare ad andarsi a prendere realmente il titolo europeo. I cambi di Mancini erano sempre nell’ottica di andare a segnare il gol della vittoria, quelli di Southgate solo volti a inserire qualche rigorista in più, decisione che rappresenta forse l’errore più clamoroso del ct inglese in tutto l’Europeo. Storicamente, buttare dentro a freddo un giocatore per un paio di minuti, in cui magari non tocca il pallone nemmeno una volta, per poi fargli tirare un rigore decisivo non è mai stata una mossa positiva, e stavolta Southgate si è addirittura superato, inserendone due al 119° minuto. C’è poi la questione della scelta dei tiratori, in cui si è scelto di lasciare il quinto e ultimo rigore a un ragazzo di 19 anni a cui si poteva leggere in volto, mentre si sistemava il pallone sul dischetto, il respiro mozzato dalla paura e dalla tensione (umanissima, a quell’età e con così poca esperienza). Ma in realtà queste sono sfumature, perché l’unica speranza di vittoria Southgate l’ha gettata via nel momento in cui ha deciso di non fare una gara di corsa, visto che la sua squadra era certamente più fresca atleticamente dell’Italia. Una volta deciso di arroccarsi dietro, con una formazione piatta tatticamente e un portiere mediocre, si è sostanzialmente consegnato all’Italia, che così è potuta salire stabilmente fin sulla linea di centrocampo, consentendo a tutti suoi uomini di correre praticamente la metà. E dopo tutti questi errori, hanno ancora il coraggio di considerarsi i padri fondatori di questo gioco…

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Gianluca Puzzo

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