È scomparso oggi, a 91 anni, il giornalista e scrittore Gianni Clerici, firma leggendaria del tennis italiano e mondiale, capace di raccontare e spiegare in un modo unico e irripetibile i gesti bianchi di mille campioni.

Di tutte le righe di sport che ho scritto nella mia vita, Gianni Clerici è stato, inconsapevolmente sia ben chiaro, il principale Maestro e Mentore.
Fin da bambino avevo ogni giorno tra le mani la copia de La Repubblica che mio padre portava a casa. Dapprima senza pagine sportive, il suo fondatore e direttore Eugenio Scalfari era tornato ben presto sui suoi passi, dotando il suo quotidiano di una redazione sportiva di firme “all star”, da Gianni Brera a Gianni Mura, da Carlo Marincovich fino a Gianni Clerici. Ed eccole lì, ad ogni torneo importante, le corrispondenze quotidiane e chilometriche del Clerici, che fin dall’inizio mi abbagliarono per lo stile completamente diverso da tutti gli altri, per quella capacità unica di apparente divagazione nelle prime venti righe per poi portare il lettore al nocciolo della questione, in un percorso logico e letterario che mi sembrava impossibile ricreare ogni giorno. “Osservavo la Settima Avenue, seduto sulla navetta che dall’hotel mi conduceva agli Stagni Scintillanti” (il suo modo di italianizzare Flushing Meadows), oppure “rimestando il mio tè tra tavoli di fragole con panna dell’All England Club”… così iniziavano spesso i suoi articoli, tanto da meritarsi, anni dopo, lo stupendo soprannome di “Dottor Divago”, inventato dal suo collega-compagno-fratello di mille e mille tornei e telecronache, Rino Tommasi. Ma in quegli anni di scoperta, il grande tennis in tv era ancora di là da venire, e io divoravo, e molto spesso ritagliavo e conservavo quegli articoli, mai di banale cronaca, sempre densissimi di riflessioni tecniche e psicologiche su quanto visto il giorno prima sui campi. E da lì prendeva il via una marea di neologismi, su tutti il celebre “braccino” ad indicare la paura vincere, e di geniali soprannomi che costruivano nella mia mente, e sicuramente anche in quella di tutti gli altri lettori, un universo di figure quasi mitologiche. “Stefanello” Edberg, “Pietrino” Sampras, “Andreino” Agassi, “Nostra Signora della Volée” Martina Navratilova, “Gattone” Miroslav Mecir, “Formichina” Mats Wilander, “Airone” Michael Stich, “Lolita” Anna Kournikova, “Stiletto” McEnroe, “Ivancrazevic” Ivanisevic, “NeuroCanè” per il nostro Paolo Canè, l’Amazzone Steffi Graf, le cosiddette “Campionesse Taglie Forti” (Mariolona Pierce, Giovannona Novotna e poi, immancabili, le sorelle Williams) su su fino alle divinità, Federer al maschile e Suzanne Lenglen al femminile.
Leggevo e rileggevo quei ritagli, affascinato da quel meccanismo giornalistico così leggero eppure così preciso e perfettamente comprensibile, e capii che Clerici rappresentava un modo diverso, unico, di raccontare lo sport. In più, scoprii casualmente (all’epoca non c’era internet) che il mio “Maestro a sua insaputa” era addirittura nato il mio stesso giorno, il 24 luglio; lo interpretai come un segno del destino, e decisi che la mia strada sarebbe stata nel giornalismo sportivo proprio per provare a seguirne le orme. Ed eccoci alla tv, con la prima pay italiana, Telepiù, che in occasione dei tornei dello Slam e degli altri più importanti metteva insieme un dream team di quattro voci, che si davano il cambio lungo giornate infinite di tennis: Rino Tommasi, Gianni Clerici, Ubaldo Scanagatta e Roberto Lombardi. I match più importanti, ça va sans dire, spettavano ai due assi, Clerici e Tommasi, che si lanciavano così in magnifici viaggi tennistici lunghi ore e ore, viaggi che per noi spettatori erano insieme imparare, ridere, riflettere, emozionarci. E se Clerici era capace di divagare negli spazi comunque angusti delle colonne di un quotidiano, figuratevi cos’era capace di fare in 4-5 ore consecutive di telecronaca! Quegli anni, in cui erano ancora presenti grandi attaccanti (Sampras, Edberg, Becker, Stich, Cash, Rafter) a contendere la scena mondiale ai fondocampisti, sono racchiusi per sempre nei miei ricordi, nell’immagine di me e mio papà, puntualissimi e immancabili sul divano, assieme alle voci di quei due, con la poeticità di Clerici a fare da perfetto contrappunto alla precisione quasi pedante di Tommasi, alla bonarietà toscana di Scanagatta, all’immensa conoscenza tecnica del compianto Lombardi.
Nel 2006, unico italiano finora assieme a Nicola Pietrangeli, Gianni Clerici veniva ammesso alla Hall of Fame del tennis mondiale di Newport, e il suo discorso di ringraziamento era la sintesi perfetta dell’umorismo e della classe del Maestro: di fronte al gotha del tennis, dapprima esordiva con “non plus ultra” dicendo di aver preparato un discorso in latino perché dopo la Hall of Fame gli mancava solo di ingraziarsi il Vaticano per la santità. Poi, tra le risate generali, Clerici dice di essersi chiesto a lungo il perché della sua presenza tra tanti campioni pieni di vittorie, rispondendosi alfine di essere il perfetto perdente, che in due edizioni disputate al Roland Garros e a Wimbledon non aveva mai vinto una partita. Ma nella vita si può essere campioni anche nel raccontare, oltre che nel fare.
Questo articolo ha catturato anche me che di sport non so proprio nulla. È un articolo intenso! Grazie, per aver fugato in modo così piacevole qualche briciola di ignoranza…
Un articolo molto sincero ed emozionante. E anche con un retrogusto romantico. Un bell’omaggio ad un grande giornalista.
Grazie, grazie davvero.
La somparsa di Gianni Clerici ti ha dato l’opportunità di scrivere, e dedicargli, un bellissimo articolo che sottoscrivo parola per parola. A me hai ricordato, inoltre, le tante telecronache a cui abbiamo assistito davanti al televisore con il commento straordinario di una coppia irripetibile come Rino Tommasi e Gianni Cleririci. Altri tempi, altri giornalisti, altri uomini. Grazie.